martedì 11 settembre 2012

Ritratto di artista


La fanciulla , attende, solitaria  fra gli alberi del grande giardino dimenticato: un po’ distante,  come una bruma dorata, si posa la  luminosità  tenue, radente di quella stagione, di quel pomeriggio, di quell’istante, di quell’ allora e di quell’ altrove. Di lei non si sa altro: che è sola e che attende. La sua presenza immotivata e perentoria, irriducibile all’oblio è una presenza carica di una attesa che la protegge dalla solitudine perché si fonda su una promessa, una memoria, su una speranza:    il suo silenzio custodisce parole segrete e i suoi occhi, altri sguardi. A volte sceglie il sogno   nuovo, come un bagliore perlaceo,     non si sa se da visitatrice o abitatrice, come in un rituale necessario,  per non smettere di ricordare e per conservare integra la forza inattaccabile della sua attesa, per portare in quelle stanze in rovina la luce  che fluisce dai suoi capelli e dalla sua veste leggiadra, la sua bellezza e la sua grazia. Ninfa pensosa, avanza,  fra i relitti e le ombre irredimibili di un mondo senza musica, imperfetto, da cui si allontana immalinconita, come davanti ad una sorta di  menzogna   nell’ oscuro rinascere dal sonno più profondo, cui cede distesa   Per non annegare nello smarrimento, nella invisibilità dell’oblio, si era ancorata ad un albero del giardino,  quasi impiccandosi alle sue edere ricadenti, vita eclissata, presenza incerta e dolente. Si era poi arresa, cedendo ancora una volta al sonno, anima persa, corpo deserto di desiderio che si disfa in un fremito di trasparenze. Ma un’altra immagine “ritrovata” testimonia la paradossale risorsa dell’abbandono:  proprio in quel radicale smarrimento, in quell’indicibile nigredo, in questa assenza si era ritrovata. E’ stato  allora che l’attesa era diventata creazione, la catastrofe genesi, la fine inizio, la morte rinascita. La fanciulla abbandonata in un sonno simile alla morte (camera oscura del suo divenire), rinasce dunque all’infinito, da sé stessa,  per se stessa, all’inizio come riflesso, come parvenza, come simulacro evanescente, immateriale, che però  acquista presto la consistenza della vita, il vigore della giovinezza, la densità della presenza: il fiore rosso tra i capelli è vividamente vivo. E’ il suo colore che accende poi quel viso, riscalda quelle mani. Risplende, infine, quel fiore, tra i capelli di entrambe, quando, assieme, geminae sorores (anime gemelle, chimerici corpi gemelli), una in piedi sulla soglia della casa, l’altra seduta su una panca accanto alla porta, simultaneamente coltivano e custodiscono l’ attesa. Stanno lì, a guardarci, invisibili. Si sottraggono alla visione diretta: possono solo essere colte nell’intermittenza di una visione obliqua, nel bagliore di uno sguardo in tralice, nei riflessi di uno specchio, nel riverbero di acque, o nell’immagine rapida, occasionale colta da una istantanea. Allora è come se si affacciassero al nostro mondo, e come se ci interpellassero, resistendo all’oblio. Sono quando le si pensa (“Tu me penses, donc je suis”!). Disseminano tracce e indizi della loro esistenza silenziosa:   hanno a che fare con quella esistenza, con quel silenzio, con quella attesa, con quel  non-detto. Sono un dono enigmatico, un ambiguo privilegio per chi,  come lei, si espone a tutti i rischi di questi incontri, del  mettersi in ascolto del silenzio, di un  vedere visionario, vulnerabile e pudico, che non preda, non vìola, ma sfiora e accoglie,  dell’inoltrarsi in un altrove e in un allora di cui poeticamente,  da molto tempo, mettendolo in immagine, esplora, decifra e disvela, con amoroso rispetto, i paesaggi segreti.

                                                                




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