La fanciulla , attende, solitaria fra gli alberi del grande giardino
dimenticato: un po’ distante, come una
bruma dorata, si posa la luminosità tenue, radente di quella stagione, di quel
pomeriggio, di quell’istante, di quell’ allora e di quell’ altrove.
Di lei non si sa altro: che è sola e che attende. La sua presenza
immotivata e perentoria, irriducibile all’oblio è una presenza carica di una
attesa che la protegge dalla solitudine perché si fonda su una promessa, una
memoria, su una speranza: il suo
silenzio custodisce parole segrete e i suoi occhi, altri sguardi. A volte
sceglie il sogno nuovo, come un
bagliore perlaceo, non si sa se da
visitatrice o abitatrice, come in un rituale necessario, per non smettere di ricordare e per
conservare integra la forza inattaccabile della sua attesa, per portare in
quelle stanze in rovina la luce che
fluisce dai suoi capelli e dalla sua veste leggiadra, la sua bellezza e la sua
grazia. Ninfa pensosa, avanza, fra i
relitti e le ombre irredimibili di un mondo senza musica, imperfetto, da cui si
allontana immalinconita, come davanti ad una sorta di menzogna
nell’ oscuro rinascere dal sonno più profondo, cui cede distesa Per non annegare nello
smarrimento, nella invisibilità dell’oblio, si era ancorata ad un albero del
giardino, quasi impiccandosi alle sue
edere ricadenti, vita eclissata, presenza incerta e dolente. Si era poi arresa,
cedendo ancora una volta al sonno, anima persa, corpo deserto di desiderio che
si disfa in un fremito di trasparenze. Ma un’altra immagine “ritrovata”
testimonia la paradossale risorsa dell’abbandono: proprio in quel radicale smarrimento, in
quell’indicibile nigredo, in questa assenza si era ritrovata. E’ stato allora che l’attesa era diventata creazione,
la catastrofe genesi, la fine inizio, la morte rinascita. La fanciulla
abbandonata in un sonno simile alla morte (camera oscura del suo divenire),
rinasce dunque all’infinito, da sé stessa,
per se stessa, all’inizio come riflesso, come parvenza, come simulacro
evanescente, immateriale, che però
acquista presto la consistenza della vita, il vigore della giovinezza,
la densità della presenza: il fiore rosso tra i capelli è vividamente vivo. E’
il suo colore che accende poi quel viso, riscalda quelle mani. Risplende,
infine, quel fiore, tra i capelli di entrambe, quando, assieme, geminae sorores
(anime gemelle, chimerici corpi gemelli), una in piedi sulla soglia della casa,
l’altra seduta su una panca accanto alla porta, simultaneamente coltivano e
custodiscono l’ attesa. Stanno lì, a guardarci, invisibili. Si sottraggono alla
visione diretta: possono solo essere colte nell’intermittenza di una visione
obliqua, nel bagliore di uno sguardo in tralice, nei riflessi di uno specchio,
nel riverbero di acque, o nell’immagine rapida, occasionale colta da una
istantanea. Allora è come se si affacciassero al nostro mondo, e come se ci
interpellassero, resistendo all’oblio. Sono quando le si pensa (“Tu me penses, donc je suis”!). Disseminano tracce e
indizi della loro esistenza silenziosa:
hanno a che fare con quella esistenza, con quel silenzio, con quella
attesa, con quel non-detto. Sono un dono
enigmatico, un ambiguo privilegio per chi,
come lei, si espone a tutti i rischi di questi incontri, del mettersi in ascolto del silenzio, di un vedere visionario, vulnerabile e pudico, che
non preda, non vìola, ma sfiora e accoglie,
dell’inoltrarsi in un altrove e in un allora di cui poeticamente, da molto tempo, mettendolo in immagine,
esplora, decifra e disvela, con amoroso rispetto, i paesaggi segreti.
Nessun commento:
Posta un commento