giovedì 5 luglio 2012

La signora allo specchio Virginia Woolf















 Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze più di quanto si debbano lasciare in giro libretti di assegni aperti o lettere in cui si confessano orrendi delitti.Non si poteva fare a meno, in quel pomeriggio d'estate, di guardare il lungo specchio appeso fuori nell'anticamera.Il caso così lo aveva disposto.Dalle profondità del divano del salotto si poteva vedere riflettersi nello specchio italiano non solo il tavolo di marmo dirimpetto, ma anche parte del giardino che si stendeva più in là.
Si poteva vedere un lungo sentiero erboso allontanarsi tra siepi di alti fiori, fino a che la cornice dorata lo tagliava fuori, portandone via un angolo.La casa era vuota, e, poiché nel salotto non vi erano altre persone, si aveva la sensazione di essere uno di quei naturalisti che, coperti d'erba e foglie, stanno sdraiati, invisibili, ad osservare i più timidi animali - tassi, lontre, martin pescatori - mentre si muovono in libertà.La stanza, quel pomeriggio, era piena di quelle timide creature, luci e ombre, tende che si gonfiavano, petali che cadevano cose che non accadono mai, sembra, mentre qualcuno sta guardando.La vecchia silenziosa stanza di campagna, con i suoi tappeti e camini di pietra, i suoi scaffali a muro e stipi di lacca rossa e oro, era piena di queste creature notturne.Attraversavano il pavimento piroettando, sollevando i piedi con passo delicato, le code spiegate, battendo con becchi allusivi come fossero gru o branchi di eleganti fenicotteri dal rosa sfumato o pavoni dallo strascico velato d'argento.
E anche, all'improvviso, si diffondeva una torbida oscurità, come se una seppia avesse inondato di porpora tutta l'aria; e la stanza aveva le sue passioni e rabbie e invidie e dolori che venivano ad annuvolarla, come un essere umano.Nessuna cosa rimaneva la stessa per due secondi.Ma, fuori, lo specchio rifletteva il tavolo dell'ingresso, i girasoli, il sentiero del giardino con tale immobile accuratezza che questi sembravano trattenuti nella loro realtà senza poter fuggire.Era uno strano contrasto tutto mutevole qui, tutto immobile là.
Non si poteva fare a meno di continuare a spostare lo sguardo da una parte all'altra.
E intanto, poiché tutte le porte e le finestre erano aperte al grande calore, c'era un perpetuo sospirare e tacere, che andava e veniva come un respiro umano, mentre nello specchio le cose avevano cessato di respirare e rimanevano immobili nell'estasi dell'immortalità.Mezz'ora prima la padrona della casa, Isabella Tyson, era scesa per il sentiero erboso con il suo leggero vestito estivo, portando un cestino; ed era svanita, tagliata via dalla cornice dorata dello specchio.Era andata probabilmente nel giardino più sotto a raccogliere fiori; o, come sembrava più naturale, a prendere qualcosa di leggero e fantastico, frondoso e pendulo, vitalba, o uno di quegli eleganti tralci di convolvolo che si avvinghiano attorno a tristi muri e fanno esplodere qua e là i loro fiori bianchi e viola.Veniva fatto di associarla al fantastico e tremulo convolvolo piuttosto che al rigido aster, alla zinnia inamidata o alle sue rose ardenti, accese come lampade sui dritti sostegni dei rosai.Il paragone mostrava quanto poco, dopo tutti quegli anni, si sapeva di lei; perché è impossibile per una donna in carne e ossa essere veramente, a cinquantacinque o sessant'anni, una ghirlanda o un viticcio.Questi paragoni sono peggio che oziosi e superficiali - sono addirittura crudeli, perché proprio come il convolvolo vengono a mettersi tremando tra gli occhi e la verità.Ci deve essere la verità; ci deve essere un muro.
Eppure era strano che dopo averla conosciuta per tanti anni non si potesse dire quale fosse la verità a proposito di Isabella; si continuavano a mettere insieme frasi come questa del convolvolo e della vitalba.Per restare ai fatti, era un fatto che era una zitella; che era ricca; che aveva comprato quella casa e collezionato con le sue stesse mani - spesso negli angoli più oscuri del mondo e a gran rischio di punture velenose e di malattie orientali - i tappeti, le sedie, gli stipi che ora vivevano la loro vita notturna.Spesso sembrava che su di lei ne sapessero più di quanto a noi, che sopra di loro sedevamo, scrivevamo e tanto rispettosamente camminavamo, fosse concesso sapere.In ognuno di quegli stipi vi erano tanti piccoli cassetti, e ciascuno, quasi certamente conteneva delle lettere, legate con nastri, cosparse di rametti di lavanda e petali di rosa.
Perché era un altro fatto - se volevamo i fatti che Isabella aveva conosciuto molte persone, aveva avuto molti amici; e perciò, ad aver l'audacia di aprire un cassetto e leggere le sue lettere, si sarebbero trovate le tracce di molti affanni, di appuntamenti, di rimostranze per avervi mancato, lunghe lettere di intimità e affetto, violente lettere di gelosia e di rimprovero, le terribili parole finali della rottura perché tutti quei convegni e appuntamenti non avevano condotto a nulla - vale a dire non si era mai sposata, e tuttavia, a giudicare dalla sua faccia, indifferente come una maschera, aveva vissuto venti volte più passioni ed esperienze di coloro i cui amori vengono strombazzati perché tutto il mondo li conosca.Sotto la tensione di pensare a Isabella la stanza si era riempita d'ombre, si era fatta simbolica; gli angoli sembravano più oscuri, le gambe delle sedie e dei tavoli affusolati geroglifici.All'improvviso, violentemente eppure senza rumore, questi riflessi vennero cancellati.Una grande forma nera apparve nello specchio; coprì tutto, sparse per il tavolo un pacco di tavolette di marmo venate di rosa e di grigio, e scomparve.Ma il quadro era completamente alterato, per il momento era irriconoscibile e irrazionale e del tutto sfocato, non si riusciva a mettere in relazione quelle tavolette con nessuna impresa umana.Poi, a gradi, un qualche processo logico si mise al lavoro su di esse, e cominciò a ordinarle e ad accomodarle, a ricondurle nei recinto della comune esperienza.Si capì alla fine che erano solo delle lettere.L'uomo aveva portato la posta.
Eccole sul tavolo di marmo, tutte gocciolanti luce e colore, dapprima rigide ed estranee.Poi fu curioso vedere come vennero accolte e accomodate e composte a far parte del quadro e a confermare l'immobile immortalità che lo specchio conferiva.Stavano lì investite di nuova realtà e significato ed anche con una maggior pesantezza, come se fosse impossibile staccarle dal tavolo senza uno scalpello.E, anche se era una fantasia, non sembravano più una manciata di lettere qualsiasi, ma tavole su cui si trovassero incise eterne verità - se si fossero potute leggere si sarebbe saputo tutto quello che c'era da sapere su Isabella, sì, e anche sulla vita.Le pagine contenute in quelle buste marmoree dovevano essere profondamente intagliate e marcate di segni densi di significato.Isabella sarebbe entrata, le avrebbe prese una per una, molto lentamente, e le avrebbe aperte, per leggerle attentamente, parola per parola, e poi con un profondo sospiro di comprensione, come se di ogni cosa avesse visto il fondo, avrebbe strappato le buste in piccoli frammenti e, legate le lettere con un nastro, le avrebbe chiuse in un cassetto dello stipo, decisa a nascondere quello che non desiderava fosse conosciuto.Il pensiero servì da sfida.Isabella non voleva essere conosciuta - ma non poteva continuare a sfuggire.
Era assurdo, era mostruoso.Se celava tanto e conosceva tanto bisognava forzarla con il primo strumento che veniva sotto mano l'immaginazione.
Bisognava fissare la mente su di lei in quell'attimo preciso.Bisognava incatenarla lì.Bisognava rifiutare di lasciarsi sviare dalle parole e dai gesti che le circostanze le offrivano - pranzi e visite e conversazioni educate.Bisognava mettersi nelle sue scarpe.A prendere la frase alla lettera, era facile immaginare le scarpe che portava in quel momento, giù nel giardino più sotto.Erano sottili, lunghe e alla moda fatte con la pelle più morbida e flessibile.Come tutto ciò che indossava erano squisite.
E lei certo stava sotto l'alta siepe nella parte più bassa del giardino, sollevando le forbici che portava appese alla vita per tagliare un fiore morto, un ramo troppo cresciuto.
Il sole le colpiva il viso, gli occhi; ma no, in questo momento critico una nuvola velava il sole, rendendo l'espressione del suo sguardo indefinibile - era ironica o tenera, vivace o smorta? Si vedeva solo il contorno indeterminato del suo bel viso un po' sfiorito rivolto al cielo.
Forse stava pensando che doveva ordinare una nuova rete per le fragole; che doveva mandare dei fiori alla vedova Johnson; che era l'ora di andare a trovare gli Hippesley nella loro nuova casa.Certamente erano queste le cose di cui parlava a pranzo.Ma si era stanchi delle cose che diceva ai pranzi.Era l'aspetto più profondo del suo essere che si voleva cogliere e tradurre in parole, quello che per la mente è come il respiro per il corpo, quello che si chiama felicità o infelicità.Appena si pronunciavano queste parole diveniva chiaro che lei, certamente, era felice.Era ricca; era raffinata; aveva molti amici; viaggiava - comprava tappeti in Turchia e vasi azzurri in Persia.
Viali di piacere si stendevano in ogni direzione a partire dal punto dove essa stava con le forbici alzate per tagliare i rami tremanti mentre nuvole di trina velavano la sua faccia.
Ora con un rapido movimento delle forbici tagliò il ramo di vitalba, e questo cadde a terra.Mentre cadeva certo si fece un po' di luce, certo si poté entrare un po' più a fondo nel suo essere.La sua mente era piena di tenerezza e di rimpianto...Tagliare un ramo troppo cresciuto la rattristava, perché una volta era stato vivo, e la vita le era cara.
Sì, e nello stesso tempo la caduta del ramo le doveva aver rammentato che anche lei sarebbe morta, afferrando al volo questo pensiero, con il suo immediato buon senso, pensò che la vita l'aveva trattata bene; anche se doveva cadere, sarebbe stato per posarsi sulla terra e dissolversi dolcemente tra le radici delle violette.
Così si fermò a riflettere.Pur senza formulare alcun pensiero preciso poiché era una di quelle persone le cui menti riservate intrappolano i propri pensieri in nuvole di silenzio era piena di pensieri.
La sua mente era come la sua stanza, dove le luci avanzavano e si ritiravano, giungevano piroettando con passo delicato, spiegavano la coda becchettando lungo la via; e poi tutto il suo essere, di nuovo come la sua stanza, veniva inondato dalla nuvola di qualche profonda consapevolezza, di qualche rimpianto inespresso, e poi era piena di cassetti chiusi, zeppi di lettere, come i suoi stipi.Pensare a forzarla, come se fosse un'ostrica, usare su di lei uno strumento che non fosse il più fine e sottile e pieghevole era empio e assurdo.Bisognava solo immaginare - eccola nello specchio.L'apparizione provocò un sobbalzo.All'inizio era così lontana che non la si poteva vedere con chiarezza.
Veniva avanti indugiando e soffermandosi, raddrizzando una rosa, sollevando un garofano per sentirne il profumo, ma non si fermava; e continuamente diventava sempre più grande nello specchio, sempre più completamente quella stessa persona nella cui mente si era cercato di penetrare.La si verificava a gradi, a gradi si collocavano nel suo corpo visibile le qualità che le si erano scoperte.Ecco il suo vestito verde chiaro, le scarpe sottili, il cestino, e qualcosa di lucente attorno al collo.
Veniva avanti così lenta che non sembrava disturbare il disegno nello specchio, ma solo portare dentro qualche nuovo elemento che dolcemente spostava e alterava gli altri oggetti chiedendo, con cortesia, di farle posto.E le lettere e il tavolo e il sentiero erboso e i girasoli che erano stati in attesa nello specchio si divisero e si aprirono in modo che essa potesse essere ricevuta in mezzo a loro.Eccola, alla fine, nell'anticamera.Si fermò immobile.Stette accanto al tavolo.Rimase perfettamente ferma.
Subito lo specchio cominciò a versare sopra di lei una luce che parve fissarla; parve un acido destinato a corrodere ciò che non era essenziale, ciò che era superficiale, per lasciare solo la verità.Era uno spettacolo straordinario.Tutto le cadde di dosso, nuvole, vestiti, cestino, diamanti - tutto quello che si era chiamato vitalba e convolvolo.
Questo era il muro sotto il rampicante.Questa era la donna vera.Era nuda in quella luce spietata.         

    Subito lo specchio cominciò a versare sopra di lei una luce che parve fissarla; parve un acido destinato a corrodere ciò che non era essenziale, ciò che era superficiale, per lasciare solo la verità.Era uno spettacolo straordinario.Tutto le cadde di dosso, nuvole, vestiti, cestino, diamanti - tutto quello che si era chiamato vitalba e convolvolo.
Questo era il muro sotto il rampicante.Questa era la donna vera.Era nuda in quella luce spietata.
E non c'era niente.
Isabella era perfettamente vuota.
Non aveva pensieri.
Non aveva amici.
Non teneva a nessuno.
E quanto alle lettere, erano conti.
Guardatela, mentre sta lì, vecchia e angolosa, segnata di vene e di rughe, col naso arcuato e il collo grinzoso, non si prende neppure la pena di aprirle.
Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze.

3 commenti:

  1. Riflettiamo un po'

    Nella storia del pensiero lo specchio non è una metafora come tutte le altre. All’adeguata
    duplicazione del mondo cui questo instrumentum philosophiae, sin dalle attestazioni più
    antiche, necessariamente rinvia, bisognerà aggiungere la sua funzione primaria, vale a
    dire quella di includere nel mondo l’osservatore stesso: colui che guarda può ora
    guardarsi. Dal suggerimento che invita a descrivere l’essenza degli specchi in relazione al
    mistero del linguaggio, del pensiero e dell’essere, muove l’indagine condotta nelle pagine
    di questo libro. A partire dai territori del mito greco, l’enigma dello specchio sarà, infatti,
    l’enigma dell’altro e dello stesso, l’enigma dell’identità e della differenza, della verità e
    dell’illusione, il luogo in cui si genera la tensione istitutrice del simbolo. Ripercorrendo i
    momenti cruciali della vicenda filosofica della nostra cultura si intende mostrare come
    l’oggetto riflettente sia stato, dagli inizi greci della riflessione scientifica fino all’ultima
    stagione del pensiero contemporaneo, la metafora stessa della filosofia. Infatti, la figura
    dell’uomo che si guarda, con la vertiginosa fuga dell’autoreferenza, riassume, con la
    potenza che è propria dell’immagine, la ricorrente ambizione della filosofia per un sapere
    assoluto e senza resti, totalizzante e autofondato. Ma di fronte a questo sapere
    l’avventura figurale dello specchio racconta anche la storia, simmetrica e speculare – non
    potrebbe essere altrimenti – di quel soggetto che, alla scuola del riflesso, diviene
    conoscitore di se stesso, e insieme, come suggeriva l’ultima saggezza di Nietzsche,
    carnefice di se stesso.

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  2. In modo alquanto suggestivo, "La metafora dello specchio" insegue, a partire dai
    racconti del mito fino agli inizi del pensiero contemporaneo, il costante riproporsi
    della figura dell'uomo che si guarda, ovvero dell'inclusione nel mondo
    dell'osservatore stesso. Si tratta di un gioco parallelo allo sviluppo dei concetti,
    dove il racconto del mito, condensato nella sintesi della metafora, continuerà a
    riproporre l'ambiguità dello specchio.

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  3. Lo specchio rappresenta due ordini simbolici: l'immaginazione e la ricerca della verità.
    Si può cercare di trovare in quali scritti appare lo specchio, a cominciare dalla favola di Biancaneve, alla Bella e la Bestia, allo specchio che ci trasforma il mondo. Infinite favole e poesie e racconti hanno usato la metafora dello specchio. Per Borgna lo specchio riflette anche la follia della persona che non è consapevole. Talvolta le donne usano lo specchio per vedersi ancora più belle, altre volte hanno davanti a sè l'immagine della vecchiaia e della morte....possiamo continuare all'infinito, ma è indubbio che questo di Virginia Woolf è uno dei racconti più interessanti che siano stati scritti. Uno specchio:due ordini di realtà....

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